Il 29 marzo, mentre si combatteva la battaglia per Milano, in attesa della conferenza stampa del capo della Protezione Civile, sulla rete si diffondevano i commenti positivi per il discorso di Edi Rama, Primo Ministro dell’Albania.
“Qui in Albania sembrerà strano che trenta medici e infermieri della nostra piccola armata in tenuta bianca partiranno per la linea del fuoco in Italia. So che trenta medici e infermieri non ribalteranno il rapporto tra la forza micidiale del nemico invisibile e le forze in tenuta bianca che lo stanno combattendo nella linea del fuoco dall’altra parte del mare. Ma so anche che laggiù ormai è casa nostra da quando l’Italia, le nostre sorelle e i fratelli italiani ci hanno salvato, ospitato e adottato in casa loro quando l’Albania bruciava di dolori immensi. Noi stiamo combattendo lo stesso nemico invisibile, le risorse umane e logistiche della nostra guerra non sono illimitate ma oggi noi non possiamo tenere le forze di riserva in attesa che siano chiamate, mentre in Italia si stanno curando in ospedali di guerra anche albanesi feriti dal nemico, e hanno un enorme bisogno di aiuto. È vero che tutti sono rinchiusi nelle loro frontiere e anche paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri, ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi, ma nemmeno privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà. Questa è una guerra dove nessuno può vincere da solo e voi, cari membri coraggiosi di questa missione per la vita, state partendo per una guerra che è anche la nostra. E l’Italia la deve vincere questa guerra, e la vincerà, anche per noi, anche per l’Europa e il mondo intero”.
Nel discorso in italiano del primo ministro albanese la parola “guerra” ricorre cinque volte e quella “nemico” tre, ma la metafora bellica scorre poi lungo l’intero testo.
La nuvola delle parole più frequenti nel discorso di Edi Rama
Il discorso di Rama, quelli di tanti politici che lo hanno preceduto, la “battaglia” per Milano, i medici “in trincea” e la “guerra al coronavirus”, ribadiscono l’ubiquità della metafora concettuale CURARE UNA MALATTIA È COMBATTERE UNA GUERRA - o “TREATING ILLNESS IS FIGHTING A WAR”, come appare nella versione originale della Master Metaphor List (George Lakoff et al. 1991).
Nei giorni successivi da più parti si sono levate le voci di coloro che esortano a non utilizzare metafore belliche per parlare del COVID-19 e più in generale della malattia, come quelle, per esempio, di Annamaria Testa, Daniele Cassandro e Fabrizio Battistelli.
L’invito è comprensibile e le argomentazioni che lo accompagnano sono decisamente valide. Vi sono però almeno due considerazioni preliminari delle quali si deve tenere conto per provare a seguirlo in modo efficace.
La prima è che la metafora della cura di una malattia come una guerra, con quello che ne consegue, non è presente solo nel discorso del presidente Rama, e di molto di quanto si dice e si scrive in questi giorni sul COVID-19. Della stessa metafora, per esempio, scrive Susan Sontag, spesso citata a questo proposito. In Illness as Metaphor (1977), tra le altre cose, afferma che la medicina “cominciò a servirsi di metafore militari nell’ultimo ventennio del secolo scorso, con l’identificazione dei batteri come agenti patogeni”. Ma non basta, nel loro studio Lane et al. (2013) riscontrano l’uso di metafore militari già negli scritti di John Donne (1572-1631) e del medico inglese Thomas Sydenham (1624-89), mentre Bleakley et al. (2014) ricordano il ruolo svolto da Louis Pasteur (1922-95) nella promozione e diffusione di queste metafore per parlare della malattia e della pratica medica. Si potrebbe proseguire con molti altri esempi, tutti comunque confermerebbero che l’adozione di questa metafora non è recente e che essa non è usata soltanto da chi si limita a parlare di medicina, ma anche da chi la pratica. In molti, se non tutti, i manuali di immunologia, per esempio, si parla di “virus che attacca le cellule”, di “invasioni batteriche” e di “difese immunitarie”.
La seconda e importante considerazione è relativa alla natura della metafora. Nel 1980, insieme a Mark Johnson, George Lakoff - citato anche da AnnaMaria Testa, scrive un libro che è all’origine dell’attuale teoria delle metafore concettuali (Metaphors We Live By - pubblicato in Italia a cura di Patrizia Violi con il titolo Metafora e vita quotidiana). Nel testo gli autori scrivono che la metafora “è in primo luogo una questione di pensiero e azione e solo in modo derivato una questione di linguaggio: il nostro comune sistema concettuale, in base al quale pensiamo e agiamo, è essenzialmente di natura metaforica”. Si tratta di una delle prime attestazioni di una teoria sul valore cognitivo della metafora, che conta oggi migliaia di studi e pubblicazioni.
Non è quindi cambiando la metafora sulla cura della malattia come una guerra che si può cambiare il modo di pensare e di agire di chi se ne occupa. Già così il compito sarebbe complesso, vista la storia secolare e la diffusione globale di questa concezione. Per chi vuole cogliere la sfida ad abbandonare le metafore belliche per parlare della malattia, il compito - ben più arduo, sarà quello di mutare radicalmente il proprio e l’altrui sistema concettuale.
Concludo segnalando che molti, se non tutti, gli esempi storici citati negli studi su questa metafora sono relativi alla lingua inglese, per leggerne – posto che ve ne siano, anche in italiano, bisognerà attendere l’esito del lavoro del Laboratorio sulle metafore seguito da un gruppo risoluto di studentesse e studenti di Mediazione linguistica della Civica Spinelli, che verrà pubblicato con i suoi aggiornamenti sul sito de ilparolario.it.
Pietro Schenone
(docente alla Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli)